venerdì 11 marzo 2005

«Mille tentativi di suicidio tra i ragazzi»

L'allarme di Milano: centinaia di casi nascosti ogni anno, è la seconda causa di morte tra i giovani e giovanissimi, dopo gli incidenti stradali. Ma non si dice. I tentati suicidi e i suicidi vengono negati, sottaciuti e camuffati, spesso vengono classificati come semplici seppur tragici incidenti. Attorno al drammatico fenomeno si costruisce un muro d?omertà impenetrabile. Secondo le statistiche ufficiali sono poco più di cento tentativi di suicidi in un anno a Milano, più di mille, invece, secondo le proiezioni degli esperti. Risultano falsate le statistiche e le ricerche epidemiologiche anche se segnalano (Istat)la Lombardia e la Sicilia come le regioni con le punte più alte. Risulta così essere l’ultimo Paese in Europa per il numero di suicidi, appena prima del Portogallo, ma solamente perché si é avvezzi a nascondere le morti volontarie, soprattutto dei più giovani.
Esiste quasi una congiura del silenzio basato sulla vergogna della persona in crisi, della sua famiglia, della scuola che frequenta, che avvolge e annebbia il problema che sfocia poi nella decisione di farsi del male. . Fra gli esperti troviamo chi è convinto che non parlare delle forme estreme di disagio giovanile sia meglio: perché altrimenti si finisce per istigarle, per creare voglia di emulazione, per mostrare troppo il disagio degli adulti, genitori e professori compresi.
Altri sostengono, «sulla base dell?osservazione scientifica», che affrontare e approfondire il tema dell?autolesionismo tra i teenager vuol dire fare azione di prevenzione. primo fra tutti il professor Augusto Pietropolli Charmet, uno psicoterapeuta molto conosciuto e di dichiarato impegno per salvare i «ragazzi tentati dalla morte».
Dice il Charmet, che è responsabile scientifico del Crisis Center voluto dall?associazione non profit milanese «L?amico Charly».: «Nell?ultimo anno ho seguito personalmente 136 casi di tentato suicidio; ritengo che sia un numero da moltiplicare almeno per dieci, che vuol dire oltre 1300 nella sola Milano”.
Questa associazione ha firmato un protocollo d?intesa con l?Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia ed offre gratuitamente, da due anni, assistenza specialistica per la prevenzione e la gestione del postvention (ovvero dell?avvenuto evento traumatico) a scuola e all?interno delle famiglie.
La professoressa Mariagrazia Zanaboni, trent?anni di insegnamento di lettere classiche, premiata quest?anno con la Rosa Camuna della Regione Lombardia e nel 2003 con l?Ambrogino d?Oro dal Comune di Milano,é la zia di un ragazzo definito “bello e bravo e di famiglia benestante”, ma morto suicida nel 2001. Ella definisce la scuola “uno scenario da presidiare per capire i ragazzi in crisi e quindi prevenire i loro gesti estremi”. Ancora definisce la scuola “il palcoscenico ideale dove esprimere il loro disagio più profondo” e dove gli insegnanti e i dirigenti scolastici “dovrebbero fungere da antenne per captare i segnali d?allarme del disagio dei propri studenti e quindi essere in grado di disinnescarli”, il vicedirettore dell?Ufficio Scolastico Lombardo, Marina Valassuga, ne conviene.
Purtroppo i segnali d?allarme vengono però spesso negati e occultati.
Secondo Ermelina Ravelli, preside della scuola superiore Capirola di Leno, in provincia di Brescia, dove Desirée Piovanelli venne rapita e uccisa durante un tentativo di violenza sessuale, gli insegnanti “sono ormai spenti nella loro passione educativa dalle varie riforme, hanno difficoltà a guardare negli occhi i ragazzi e a decifrare il loro disagio”.
Però non si tiene conto del fatto che spesso i ragazzi fanno gesti estremi senza dar segnali delle loro intenzioni, perlomeno fra parenti, amici e insegnanti. Spesso anche se potrebbero esserci segnali, non siamo più abituati a recepire le muste richieste d’aiuto. Spesso ancora, nonostante tutto l’essere gridi aiuto, c’é una ferma volontà a non chiedere esplicitamente aiuto o a rifiutare le offerte di coloro che si sono accorti del disagio. In molti, il problema più grande consiste sempre nel far riconoscere e capire alla famiglia il disagio del proprio figlio perché lo si vive come una colpa propria.

Una ricetta non c’é, ma decisamente una cultura improntata sulla socialità, sul dialogo, sulla condivisione, ridurrebbe drasticamente questo fenomeno, l’avanzare dell’individualismo più sfrenato, non farà altro che incrementare questo fenomeno, infatti si sta radicando la convinzione che é vergognoso chiedere aiuto agli altri, anche se d’altra parte si rivendicano sempre più diritti. Ma questi diritti, guardacaso sono sempre legati a una contropartita di guadagno, di successo…non tengono affatto conto dell’animo, del pensiero, dei sentimenti umani.

Louise

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